A due anni dalla morte di quello che riduttivamente potremmo definire il giornalista, Tiziano Terzani, la casa editrice Longanesi pubblica, per la sua collana il Cammeo, La fine è il mio inizio. Più che un libro è il diario di una vita. Folco Terzani, figlio di Tiziano, raccoglie, nell’anno precedente alla morte del padre, il ricordo delle intense esperienze vissute da una delle più grandi penne del giornalismo italiano.
La fine è il mio inizio è l’eredità ricevuta in dono da un figlio, da parte di un padre che sa di essere arrivato alla fine dei suoi giorni, quegli ultimi giorni resi insopportabili da un tumore allo stomaco che gli ricorda continuamente la sua misera esistenza corporea. Tiziano ripercorre i suoi circa settant’anni di vita non da giornalista, ma da uomo che ha fatto del giornalismo la sua missione su questa Terra. La sua è un’avventura lunga una vita, pioniere in quella misteriosa Cina, che ancora oggi resta impenetrabile per noi Occidentali e che allora, più che mai, era un altro universo e a volte una chimera per chi vedeva nella politica di Mao la concretizzazione di un ideale.
La Cina è una delle grandi protagoniste della storia e della vita di Terzani, fonte di forte passione ma, nello stesso tempo, di una terribile disillusione, per lui che, giorno dopo giorno, ne vedeva disattendere le speranze, sfiorire il futuro, per lui che si ritrovava a raccontare la deviazione e la strumentalizzazione del comunismo, e per comprendere solo alla fine che, se si era follemente innamorato di questo posto, è perché ne aveva la certezza che prima o poi l’avrebbe abbandonato.
Mentre tutto d’un fiato si leggono le peripezie di Tiziano, che riesce a salvarsi anche da una fucilazione nella Cambogia dello scellerato Pol Pot, si viene bruscamente interrotti da quelle frasi che riportano i tratti della stanchezza, del dolore e della fatica, che un corpo malato fa nel raccontare le emozioni di una vita intera. E così veniamo riportati in quel rifugio sui monti dell’Orsigna, davanti a quel caminetto, dove un figlio lacrimevole ascolta forse le ultime parole del vecchio padre.
E più i ricordi fanno volare la nostra mente e più brutalmente veniamo rigettati al suolo dalla lucidità e dal distacco con cui Tiziano non li avverta più come suoi, e di come li voglia abbandonare su questa terra, insieme al suo corpo, che altro non è che una zavorra per il suo spirito. Proprio questa separazione dalla misera esistenza mondana gli permetterà di raccontare al figlio l’uomo, piuttosto che il padre e quindi episodi come il tradimento della madre o della sublime sensazione che si prova fumando dell’oppio.
Il lettore non può che far a meno di apprezzare il rifuggire da atteggiamenti paternalistici o perbenisti, anche se questo non farà che acuire l’amara consapevolezza che la conclusione del libro coinciderà con la fine di una meravigliosa vita, di quelle che solo pochi uomini hanno il coraggio di realizzare.
A cinque anni da quella lettura…
1 aprile 2011, per la regia di Jo Baier, con Bruno Ganz, Elio Germano ed Erika Pluhar, esce as Ende ist mein Anfang, tratto dal libro la Fine è il mio inizio di Tiziano Terzani. Mi tremano le vene ai polsi: uno, perché consuetudine vuole che i film tratti da libri, nella maggior parte dei casi, siano dei veri e propri affronti alla letteratura; due, perché temevo la regia e il cast tedesco (anche se leggermente contaminato da un prodotto made in Italy, quale Elio Germano) per realizzare un film con caratteri e ambienti tutti nostrani, o per lo più asiatici.
Ma, superato il pregiudizio, si va alla proiezione. La regia di Jo Baier e di Ulrich Limmer, autore della sceneggiatura insieme a Folco Terzani, ha tentato di rendere sul grande schermo il libro testamento del grande giornalista italiano, ha tentato, ma difficile è riuscirci se i dialoghi vengono relegati a meri collegamenti tra una scena e l’altra, se le musiche di Ludovico Einaudi, sono sovrastate dal seppur gradevole, ma monotono e noto, suono della natura; se non sono rappresentanti, né tantomeno raccontati, alcuni degli snodi narrativi più drammatici del libro, ad eccezion fatta per la morte di Tiziano e la malattia, che sciaguratamente diventano le protagoniste della pellicola; se al di fuori della casa-rifugio, sui monti dell’Orsigna, sembra non esistere alcun mondo: non c’è Vietnam, non c’è Cambogia, c’è a mala pena qualche tratto Cina.
Si esce dal cinema con una sensazione di incompiuto, come se nel film si fosse sempre in attesa che ci travolgano quelle stesse emozioni che abbiamo trovato nel libro, magari attraverso dei flashback che facciano riaffiorare cinematograficamente quel fantastico passato; ed invece no, si resta attaccati alla poltrona, speranzosi che non sia venuto in mente a nessuno di sequestrarci per novantotto minuti in uno scambio di domande e risposte sui massimi sistemi, e di non dover decretare l’ennesimo fallimento di un regista che cerca di incatenare, con immagini e voci, sensazioni che solo il silenzio della scrittura/lettura può darti; soprattutto perché, mai come in questo caso, la tragedia poteva essere evitata.
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